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domenica 2 novembre 2014

Ed è l'odore dei limoni

"Ascoltami, i poeti laureati
si muovono soltanto fra le piante
dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti.
Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi
fossi dove in pozzanghere
mezzo seccate agguantano i ragazzi
qualche sparuta anguilla:
le viuzze che seguono i ciglioni,
discendono tra i ciuffi delle canne
e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni."

Foto di Gea

Nelle aree in cui si coltivano gli agrumi, un minuscolo artropode semina il panico. L'arancio amaro, il pompelmo, il cedro, ma soprattutto il profumatissimo limone sono le piante attaccate da un acaro chiamato Eriophyes sheldoni, noto ai più come l'acaro delle meraviglie.
Questo piccolo animale (0,1 / 0,2 mm di lunghezza da adulto) predilige alcune varietà di agrumi in generale e di limoni in particolare.
Esso trascorre l'inverno all'interno delle gemme della pianta finchè, al momento della ripresa vegetativa, raggiunge le nuove gemme e si ciba di esse pungendole.
Le gemme a fiore punte dal piccolo acaro daranno origine a fiori che cadranno precocemente, mentre quelle che da cui nascerà il frutto daranno una “prole” deformata, tentacolare, dall'aspetto di un polpo. Questi frutti sono definiti meraviglie.
Dove il frutto viene punto dagli acari, infatti, non si sviluppa,
a causa di alcune sostanze contenute nella saliva del piccolo artropode, mentre continua tutt'intorno la sua crescita.





In condizioni favorevoli l'acaro si riproduce ogni 15 giorni nel periodo estivo e ogni 20- 30 giorni nella stagione invernale. Di solito esso viene trasportato da una coltivazione all'altra attraverso il vento o a causa dello spostamento di attrezzature vivaistiche. Proprio la sua capacità di riprodursi velocemente durante l'estate ed il fatto che in inverno viva riparato nelle gemme lo rendono un temibile avversario per le coltivazioni di limoni ed agrumi più in generale.
In un passato non lontano le meraviglie sono state prese come simbolo della lotta contro l'inquinamento, senza sapere che in realtà erano il frutto, è proprio il caso di dirlo, di un'infestazione di parassiti: gli acari eriofidi di cui abbiamo parlato oggi.

Da qualche parte, ultimamente, ho letto questa frase: “L'istruzione si paga una volta sola, l'ignoranza si paga tutta la vita”.


"Vedi, in questi silenzi in cui le cose
s'abbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l'anello che non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità.
Lo sguardo fruga d'intorno,
la mente indaga accorda disunisce
nel profumo che dilaga
quando il giorno piú languisce.
Sono i silenzi in cui si vede
in ogni ombra umana che si allontana
qualche disturbata Divinità."



Testo poesia da "I limoni" di Eugenio Montale (Ossi di Seppia,1925).
Immagini personali e tratte da Wikipedia.

giovedì 16 ottobre 2014

Wolverine, il ghiottone coi muscoli

Di X-Men abbiamo già parlato quando abbiamo preso in esame le mutazioni genetiche.
Tuttavia, da qualcuno bisogna pur partire per iniziare a parlarne nello specifico.
Dovendo scegliere, io, autrice del testo e orgogliosa proprietaria di tanti cromosomi XX, ho scelto Wolverine/Logan come protagonista di un post che scavi nello specifico di questo gruppo di strani personaggi.

Wolverine

L'ho scelto perchè, a mio parere, la storia di questo personaggio è una delle più interessanti e lo stesso si può dire del suo gene X: la capacità di rigenerazione praticamente illimitata. Spendiamo due parole sul fatto che milioni di persone sono corse a vedere “Wolverine – L'immortale” solo pochi mesi fa, ma nessuno ha mai pensato a come sarebbe stato più loffio un titolo come “Ghiottone – L'immortale”, vera traduzione del nome dell'animale da cui il nostro X-Man prende il nome.

Il ghiottone

Quindi smettiamola di immaginare che Wolverine sia un lupo piccolino; è un ghiottone, che per quanto si sforzi non sembra molto temibile, pur essendo un solitario e laborioso cacciatore di radici e pur riuscendo a spezzare il femore di una renna con un morso.
Inoltre, più che una buona vista ha un buon olfatto, fattore che impoverisce ulteriormente la figura di Hugh Jackman nel film, se andiamo a guardare. Tuttavia non dimentichiamo che il nome, a parte derivare da una leggenda indiana che viene raccontata a Logan dalla sua donna e che riguarda la triste storia d'amore della Luna e del suo amante, separati con l'inganno (ehm ehm, non siamo qui a svelare la trama, quindi passiamo sopra a questi dettagli), deriva dal fatto che un altro dei poteri di Wolverine è quello di avere dei sensi sviluppatissimi, come quelli dell' animale selvatico da cui prende il nome.
Ecco qua, dunque, che ci si presenta il nostro X-Man: un fattore di rigenerazione che gli permette di guarire da ogni ferita e frattura, una sensibilità “animale” e naturalmente il tratto più caratteristico: gli artigli ossei che gli spuntano da entrambe le mani. Il tutto ricoperto da una lega metallica chiamata adamantio e praticamente indistruttibile.
In che modo Logan sia riuscito ad ottenere la sua personale armatura di adamantio non ve lo sto a raccontare, ma potete immaginare da soli che non sia stato così facile e soprattutto indolore.
A corti discorsi potete fare quello che vi pare per uccidere Wolverine, ma se non avete qualche arma in adamantio non gli farete poi così male. Se viene ferito, si rigenera e l'unico piccolo problema che può avere avuto è stato un tizio che gli ha sparato in testa qualche proiettile. Di adamantio. Quindi Logan non si ricorda più nulla di nulla.

Qualche mese fa, durante le mie peregrinazioni internettiane, mi sono imbattuta in un articolo pubblicato su Cell da un gruppo di ricercatori della Harvard Medical School di Boston in cui si parla del gene Lin28a, da cui deriva una proteina responsabile della rigenerazione tissutale tramite alterazione del metabolismo. In pratica si tratta di una proteina regolatrice che almeno in parte agisce sul metabolismo del glucosio e promuove la ricostruzione di tessuti danneggiati. I modelli su cui questa proteina era stata finora studiata sono stati C. elegans (il nostro amico vermacchione) e lo zebrafish, tuttavia l'innovativo studio di cui sopra è stato compiuto su alcuni topi.
L'idea del gruppo di scienziati che si sono svegliati una mattina, si sono guardati allo specchio e si sono trovati terribilmente invecchiati, è la seguente: dato che il gene funziona molto di più durante gli anni giovanili del topo e poi perde la sua funzionalità, perché non manipolarlo un pochino e farlo tornare all'antica gloria nell'individuo adulto? In questo modo anche un individuo già sviluppato potrà ottenere di nuovo quelle capacità di rigenerazione tissutale ormai molto attenuate.
Tuttavia, i geni molto più spesso di quanto non si pensi lavorano in sinergia l'uno con l'altro, e dunque si è arrivati a concludere che esista la possibilità che ingegnerizzare solamente Lin28a possa non essere abbastanza o che comunque ci sia bisogno di identificare anche le molecole bersaglio di questo gene per avere un quadro più chiaro del meccanismo che giace al fondo. Di certo questo studio è un passo avanti per evidenziare gli effetti in vivo della manipolazione del gene e per poter approfondire nuove metodiche che aiuteranno nella cura di malattie che derivino da degenerazione e danneggiamento tissutale. Se volete documentarvi in modo approfondito su questo studio cliccate qui.
Il gene Lin28a è stato ribattezzato dalla stampa “Wolverine” per la lodevole associazione di idee di qualcuno che la sera precedente si era sparato il DVD sul divano e ne era rimasto piacevolmente colpito. Queste si chiamano coincidenze fortuite, ogni tanto capitano. 

Ora godetevi i Survivor che fanno 80 chilometri per raggiungere la sala prove, per strada fanno finta di non conoscersi, poi alla fine si bagnano i capelli a turno: una fortuna per il tastierista che aveva una pettinatura inguardabile. 


venerdì 26 settembre 2014

Foglie gialle giù
Equinozio d'autunno

Benvenuto autunno!
Quest'anno l'equinozio è avvenuto alle 2.29 del mattino del 23 settembre e così, anche se ci siamo a malapena accorti dell'estate, andiamo già verso il freddo (vedremo quanto) inverno. Siamo, tuttavia, entrati in una stagione spettacolare, a modo suo. Se frequentate parchi, giardini, campagne, non può sfuggirvi lo spettacolo delle foglie che stanno iniziando ad assumere i colori più caldi dell'anno. Sembra quasi di ricordare il calore dell'estate attraverso il giallo, l'arancione ed il rosso scuro delle foglie di molti alberi.
Molte madri, poi, saranno presto coinvolte nel sadico giuoco delle maestre, le quali daranno ai figli la temuta consegna di raccogliere almeno una ventina di foglie di alberi diversi per attaccarle poi in quello che potremmo definire un “fogliario”. A questo punto, poi, non sarà inusuale vedere folle di genitori prendere d'assalto parchi e giardini per accaparrarsi le ambite foglie, a costo anche di iniziare un piccolo contrabbando tra i genitori che vivono in città e quelli che invece stanno in campagna (e che, naturalmente, di solito hanno occasione di frugare in una maggior quantità di giardini). Alla fine, di solito, tutti i bambini della stessa classe hanno le stesse foglie appuntate sui loro quaderni, vuoi per il mercato nero, vuoi perché i genitori hanno vagato raminghi negli stessi posti.

Dopo tanti anni fuori dalla scuola, mi sono posta un interrogativo.

Perché le foglie in autunno ingialliscono e cadono?

Partiamo dalla pianta: come funziona, a grandi linee?

Tutti sappiamo che le piante in generale svolgono la fotosintesi clorofilliana, cioè trasformano l'acqua e l'anidride carbonica in carboidrati ed ossigeno.
L'ossigeno viene rilasciato nell'ambiente circostante, i carboidrati vengono portati agli organi di immagazzinamento della pianta: il tronco, i rami, le radici. Saranno queste riserve a mantenere in vita la pianta durante l'inverno e promuovere l'inizio della crescita l'anno successivo.
La fotosintesi è un processo chimico svolto per la maggior parte nelle foglie, dove si trovano particolari organelli, chiamati cloroplasti, che contengono la clorofilla.
Quest'ultima è una molecola capace di catturare la luce e, per farla semplice, trasferire l'energia da essa derivante ad alcuni sistemi che effettuano la vera e propria fotosintesi.
Per questo motivo si dice che quest'ultimo processo avviene solo in presenza di luce.
Le foglie sono verdi perché ricchissime di clorofilla, immagazzinata nei cloroplasti.
la fase di crescita delle piante, cioè la primavera e l'estate, la clorofilla viene sostituita continuamente nelle foglie, dato che essa si disgrega e scompare ad un ritmo molto alto.
In autunno le notti iniziano a farsi più lunghe e la pianta si prepara alla stagione fredda sviluppando, alla base di ogni foglia, uno strato di sughero che pian piano separa il picciolo dal ramo. Il tentativo della pianta di disfarsi delle foglie ha una finalità ben precisa: proprio come un animale che va in letargo, anche la pianta in inverno deve rallentare il suo metabolismo e lo fa traspirando meno. Poichè gli organi per eccellenza della traspirazione sono le foglie, la pianta le perde, lasciando il compito a tronco e rami e diminuendo in questo modo anche il richiamo di acqua dalle radici.
Lo strato di sughero, infatti, blocca il flusso di nutrienti che nella bella stagione sono stati inviati alla foglia. Oltre ai nutrienti, essa ha ricevuto nello stesso periodo anche una grande quantità di clorofilla, dato che quest'ultima deve essere continuamente sostituita, man mano che la foglia prende parte ai processi di fotosintesi. Infatti, l'esposizione alla luce deteriora lentamente le molecole di clorofilla, proprio come un foglio colorato perde le sue tinte, se è esposto al sole.
Dunque, con l'allungarsi delle notti ed il volgere delle stagioni verso il freddo, la colorazione verde viene sostituita da colori che erano presenti anche prima, ma venivano mascherati dall'alta concentrazione di clorofilla presente. Ad esempio, inizieremo a vedere il giallo e l'arancione derivanti dai caroteni e dalle xantofille. I pigmenti definiti antocianine di solito non sono presenti nella bella stagione, ma vengono “costruiti” a partire dai carboidrati che restano intrappolati nella foglia. Lo strato di sughero alla base del picciolo non permette il deflusso verso la pianta di zuccheri ed amido.
Gli scienziati ormai conoscono le motivazioni per il cambiamento di colore del fogliame in autunno. Xantofille e carotenoidi possiedono ancora la capacità, seppur minima rispetto alla clorofilla, di catturare l'energia della luce solare. Quello che ancora rimane poco chiaro è il motivo per cui la pianta dovrebbe lasciare nelle foglie così tanti carboidrati prodotti dalla fotosintesi, permettendo la formazione di antocianine.
Ad autunno inoltrato il sughero che separa la foglia dalla pianta diventa più spesso, fino al momento in cui la foglia si stacca dalla pianta e cade a terra, per la gioia dei genitori e del “fogliario” dei bambini.


venerdì 19 settembre 2014

Una storia di fantasmi ed avocado

Qualche tempo fa mi è capitato di leggere un post del sito Brainpickings riguardante un libro, scritto da Connie Barlow, intitolato “The ghosts of evolution”.


Non so ancora dare un'opinione completa su tutto lo scritto, tuttavia ho letto con interesse, forse anche con il solito scetticismo, le prime pagine e sono rimasta colpita da quello che l'autrice racconta riguardo l'avocado.
Questo frutto, proveniente dall'America Centrale, proviene da un albero che è stato chiamato, nella nomenclatura scientifica, Persea americana. Quasi tutti almeno una volta nella vita abbiamo guardato al supermercato questi frutti piriformi, di un verde brillante e dalla buccia lucida e liscia. In pochi l'abbiamo portato a casa per farne qualcosa in cucina. Tuttavia, superato lo scoglio dell'acquisto, la sorpresa che ci aspetta dentro all'avocado è un unico grande seme scuro o, se ci riflettete bene, un enorme seme. Lì dentro la pianta ha nascosto il germe del nuovo albero ed anche tutta una serie di risorse affinché, nel caso il frutto cadesse a terra e non avesse modo di germinare, esso possa almeno contare sulle riserve immagazzinate nel seme stesso anche fino ad un anno intero.


Tutto ciò è molto commovente da parte di mamma avocado, se però facciamo quattro passi nella botanica, ci accorgiamo subito che c'è qualcosa che non va.
Il proposito di tutte le piante è produrre moltissimi semi che poi verranno dispersi in tanti modi: uno fra tutti, gli animali che mangeranno il frutto della pianta, lo digeriranno e faranno funzionare il loro intestino a distanza dalla pianta madre. Un altro albero crescerà lì dove l'animale ha lasciato i suoi escrementi.
Ora ditemi voi, quale animale vivente oggi può ingollare tutto intero il seme dell'avocado? Diciamo tutto intero perché la pianta ha evoluto un accorgimento per cui, se il seme viene frantumato, si liberano delle tossine che danno un cattivo sapore. Mamma avocado fa le cose per bene e, per i motivi esposti sopra, non permette che il seme possa essere rotto, mettendo a repentaglio le risorse fornite all'embrione per la sua delicata crescita.
La risposta è, allo stesso tempo, semplice ed affascinante.
L'avocado è nato e cresciuto nel Pleistocene ed ha evoluto le fattezze del suo frutto per irretire la megafauna vivente nella stessa epoca, attirata dalla sua polpa brillante e gustosa e perfettamente in grado di ingoiare un seme di quelle proporzioni senza soffocare e senza provare nemmeno a frantumarlo. Il loro esofago ed in generale il loro apparato digerente erano del tutto capaci di digerire la polpa e far uscire alla fine del “tubo” il seme, insieme a tutto il risultato della digestione, magari a qualche chilometro di distanza. La volontà dell'albero di avocado di propagare la propria progenie era fatta.
Per megafauna intendiamo, per fare lo stesso esempio del libro di cui parlavo all'inizio, dei Gomfoteridi, animali simili agli odierni elefanti, estinti ormai dalla fine del Pleistocene.



Anche i bradipi terrestri (ground sloths) erano tra coloro che si cibavano di avocado senza problemi, ma anch'essi sono ormai estinti.


Facendo due conti, quindi, l'autrice Barlow, sulla scia degli studi proposti dal biologo Daniel H. Janzen, definisce casi come quello dell'avocado degli “anacronismi evoluzionistici”: una pianta ha evoluto le proprie caratteristiche per coniugarle con quelle dei consumatori del frutto, in questo caso i consumatori del Pleistocene. Purtroppo, gli animali in grado di disperdere il loro seme lontano non esistono più da tempo.
Per fortuna dell'avocado, tuttavia, la stessa polpa del frutto ha richiamato un gran numero di consumatori nel tempo, dato il suo aspetto succulento ed i suoi interessanti valori nutrizionali e, quindi, ancora oggi possiamo mangiare la guacamole. 

“Un avocado è fatto per un mondo che non esiste più. Il frutto di questa pianta è un anacronismo ecologico.
I suoi partner mancanti sono i fantasmi dell'evoluzione.”
- Connie Barlow -

venerdì 12 settembre 2014

Ehi! Un topo! Ma no, è un' arvicola!

Cari lettori, causa contrattempo tecnico, questa settimana Rifiuto Biologico vi regala solo un breve, ma importante, aggiornamento.
Per la prima volta è stato avvistato sulla piana del lago di Pilato, all'interno del Parco dei Monti Sibillini, un piccolo amico: l'arvicola delle nevi (Chionomys nivalis).

L' arvicola fa "cheese"!
Foto ANSA
Arvicola delle nevi
(Chionomys nivalis)
Foto di Girardi F.

Si tratta di un esemplare appartenente alla famiglia dei Cricetidi, con folta pelliccia grigiastra e piccole orecchie. Le zampe posteriori sono piuttosto lunghe, tutto il corpo può avere una lunghezza che varia dagli 11 ai 14 centimetri, cui si aggiunge una coda lunga tra i 5 e i 7 centimetri.
So che per alcuni di voi, a guardare la foto, l'arvicola sembrerà solo l'ennesimo topolone disgustoso, tuttavia averlo come confermato abitante dei Sibillini è un grande traguardo: vuol dire che in questa zona il disturbo creato dalla presenza umana è ancora piuttosto basso.
Se seguite il blog da qualche mese conoscerete già questa area dei Sibillini, nella regione Marche, poiché Rifiuto Biologico se ne è occupato in un guest post in collaborazione con “I love Marche”. Sempre qui, ma nelle acque del lago di Pilato, infatti, vive una specie endemica: il crostaceo Chirocefalo di Marchesoni.
Per l'arvicola la storia è un po' diversa: almeno un esemplare era stato avvistato alla fine degli anni '70, ma non c'era stata nessuna conferma negli anni successivi.
Questo esemplare di roditore è comune nelle zone di alta montagna dell' Europa centro-meridionale, nell' Asia centrale ed occidentale ed in Italia sulle Alpi, sugli Appennini settentrionali ed in quelli abruzzesi.
Ieri, dopo lunga attesa, uno degli zoologi coinvolti nel progetto di ricerca, condotto dal Parco dei Sibillini con i fondi del Ministero dell'Ambiente per il monitoraggio della biodiversità, è riuscito ad acciuffare un'arvicola. I ricercatori hanno quindi proceduto al riconoscimento, confermando che si trattasse proprio di quella specie, e poi hanno rilasciato il roditore, che è tornato a zampettare sereno sulla pietraia.
La biodiversità del Parco aumenta, dunque, e lo stesso Ente Parco ha provveduto a rilasciare una dichiarazione in cui, oltre all'orgoglio per il nuovo piccolo abitante, si invitano i visitatori alla cautela ed al rispetto dell'ambiente durante le escursioni.
E' sempre bello poter parlare di queste novità, spero che apprezziate anche voi l'importanza della notizia.

venerdì 5 settembre 2014

Labirinto di mais e di ipotesi

Questa settimana torniamo a parlare di mais, dopo il post sull'installazione (!!) Quantomais a Milano.
Rifiuto Biologico ha scoperto che nelle Marche, paese di avidi mangiatori di ciauscolo e olive e bevitori di ottimo vino, è stato "costruito" un labirinto di mais che fa concorrenza allo stretto corridoio difronte al Castello Sforzesco.
A Senigallia, non lontano dal casello e dal centro città, alcuni baldi giovani riuniti nella società cooperativa Hort hanno costruito un grande labirinto, fatto appunto di mais.
Cosa si va a fare in un labirinto di mais? Si gioca a tornare bambini e si fanno divertire quelli che bambini ancora lo sono, facendo incontrare loro Alice e la Regina di Cuori, ad esempio. Tanto di cappello a chi si è inventato l'idea della caccia al tesoro settimanale nel labirinto e la notte del Minotauro, gli eventi sotto le stelle e la notte di paura che ci sarà proprio questo sabato sera.
Onore al merito anche perchè questa non è stata di sicuro un'estate facile da gestire, con ripetuti periodi di pioggia che hanno costretto gli operatori a chiudere il labirinto perché impraticabile causa fango. Oltre a ciò, siccome alle Marche non manca mai qualche sconvolgimento naturale, proprio mentre il mais stava crescendo Senigallia è stata colpita dall'alluvione, che ha creato difficoltà al grande progetto.
Se volete perdervi un po' avete tempo fino al 14 settembre per approfittare dell'occasione (orario di apertura 17/23). Intanto guardate questo divertente video fatto durante la costruzione del labirinto.



Il mais fu l'unico cereale che ebbe una vasta diffusione nel Vecchio Continente dopo la scoperta delle Americhe, poiché aveva una resa molto maggiore rispetto agli altri cereali comunemente usati. Tuttavia, la sua ascesa si accompagnò alla diffusione di una malattia che seminò il panico sociale, dato che le sue cause erano ignote.
Tra il XVIII ed il XIX secolo anche l'Italia settentrionale, come molti altri paesi europei e dell'America del Nord, fu sconvolta da un'epidemia di pellagra, termine preso in prestito dal dialetto lombardo (pelle agra, ruvida), che rapidamente si diffondeva negli strati più poveri della popolazione e sembrava un morbo misterioso ed incurabile. Si scatenarono le ipotesi sull'eziologia e la più probabile sembrò essere l'ingestione di pannocchie marce.
I malati di pellagra presentavano le cosiddette 3D: dermatite, diarrea e demenza. Quelli dei paesi anglosassoni ne potevano aggiungere una quarta per death, morte, a cui quasi tutti i pazienti arrivavano dopo circa 3 o 4 anni dall'inizio dei sintomi. Va da sé che i poveretti soffrivano terribilmente e non potevano esporsi a lungo alla luce, poiché avevano una pelle sensibilissima.
La situazione era simile in molti paesi, anche negli Stati Uniti, in cui nel 1914 un brillante scienziato, il dottor Goldberger, volse lo sguardo verso questa nuova epidemia ed iniziò anche lui a cercarne le cause. Gli studi da lui compiuti in orfanotrofi e prigioni lo portarono a considerare falsa l'ipotesi ventilata da molti, secondo cui la malattia sarebbe stata infettiva, cioè originata da un batterio.
La sua osservazione era molto semplice: i detenuti o i bambini colpiti da pellagra non la trasmettevano mai al personale che si occupava di loro.
Sembrava una considerazione banale, ma l'esperienza di Goldberger in materia di epidemiologia lo rese sicuro di ciò. Inoltre, gli fece volgere lo sguardo alla dieta dei pazienti ed iniziò a pensare che la vera causa fosse una malnutrizione. Diminuendo la presenza di mais nella loro alimentazione e, dunque, sottoponendo i suoi “soggetti” ad una dieta più ricca di carne, latte e verdure, ottenne miglioramenti e guarigioni. A questo punto, però, nessuno gli credeva, perché le nuove idee hanno sempre difficoltà a farsi strada nell'opinione comune.
Che cosa fece, allora, il dottor Goldberger? Si fece iniettare il sangue di un malato di pellagra per dimostrare che non si trattava di un'infezione e, indovinate un po', sia lui che il suo staff non contrassero la malattia.
Malgrado ciò, i medici rimasero piuttosto scettici riguardo alle cause alimentari della pellagra. Ad ogni modo, Goldberger continuò per tutta la vita a difendere la sua idea e ad usarla come bandiera per chiedere a gran voce miglioramenti delle condizioni di vita ed alimentari delle fasce più povere della popolazione.
In Italia l'idea di Goldberger sarebbe stata ampiamente dimostrata, dato che la maggior parte dei pazienti apparteneva a fasce povere di popolazione, le quali basavano la loro dieta interamente sul mais. In Veneto, regione in cui si riscontrarono sempre i picchi più alti di presenza di pellagra, i contadini si cibavano di circa due o tre chili di polenta al giorno, non avendo altro di cui nutrirsi.
Nel corso del XX secolo anche in Europa la ricerca fece dei progressi notevoli, arrivando a confermare che la causa della pellagra era l'insufficienza nella dieta di niacina (vitamina PP) o dell'aminoacido triptofano, necessario alla sua costruzione.
Il mais da solo non è un alimento completo, perciò chi si cibava solo di esso andava incontro ad un grave deficit nutrizionale. La soluzione per arginare l'epidemia era variare la propria dieta, integrandola con altri alimenti che avrebbero fornito vitamina PP e triptofano.
Ora, però, sorge spontanea una domanda: le popolazioni dell'America Centrale che da sempre hanno basato la loro dieta sul mais, come facevano ad essere sane o comunque poco intaccate dalla malattia?
La risposta giace nel loro bagaglio culturale. Da sempre i popoli azteco e maya avevano come tradizione quella di bollire il mais con acqua e bicarbonato di calcio e poi lasciarlo riposare per una notte. Il processo si chiama nixtamalizzazione ed aiuta il mais a liberare niacina, rendendola disponibile per il consumo di chi ingerisce l'alimento. Ovviamente al di fuori dell'America Centrale la procedura non era nota, perciò il mais veniva solamente bollito in acqua, con le infauste conseguenze che ora conosciamo.
Per concludere, nel labirinto delle ipotesi, a volte la soluzione giunge inaspettata da un angolo che non avevamo mai pensato di esplorare.

sabato 30 agosto 2014

Blu aragosta
Lobster, she wrote

La maggior parte di voi ricorderà l'aragosta Pizzicottina, cui Homer era molto affezionato, in una puntata dei sempreverdi Simpson. Ricorderete anche i suoi sentimenti contrastanti al momento di mangiarla.
Se anche voi andate pazzi per i crostacei, specialmente le aragoste, sarete forse incuriositi dal fatto che esistono anche le aragoste blu!
La cosa che vi stupirà ancora di più è che non sono nemmeno le più rare.
L'idea per questo post mi è venuta dopo aver letto, qualche giorno fa, della cattura di un'aragosta blu nella costa nord est degli Stati Uniti, il ben noto Maine della Signora Fletcher e di Stephen King.

Aragosta blu
Foto di Justin Brook

Un tempo, tra il diciassettesimo ed il diciottesimo secolo, di aragoste in zona ce n'erano così tante che venivano addirittura utilizzate come fertilizzante per i campi. Tuttavia, nel secolo successivo questi crostacei iniziarono a scarseggiare e divennero, ovviamente, molto costosi per chi voleva consumarli.

Contrariamente a quanto ci dicono i cartoni animati, l'aragosta (in questo post mi riferisco alla variante nordamericana, Homarus americanus) non è rossa come quando la vediamo nel piatto, bensì ha una sfumatura che va dal rosso scuro/blu profondo al verdastro, poiché in questo modo essa riesce a confondersi meglio con il fondale marino.

Homerus americanus

Passando un po' alle statistiche, la probabilità di trovare un'aragosta blu è una su 2 milioni di aragoste. Sono un po' pochine, vero?
Ebbene, non sono le più rare, dato che esistono anche quelle gialle e che se ne trova una su 30 milioni. Esistono, inoltre, anche aragoste con esattamente metà del corpo bruno e metà rosso (una su 50 milioni di aragoste).

Aragosta bicolore
(no, non è un Photoshop)

Da questo punto di vista, sembra quasi abbastanza comune trovare un'aragosta blu, rispetto a trovarne una gialla o bicolore.
Tuttavia ho lasciato la chicca per ultimo: esiste un tipo albino di aragosta e, udite udite, se ne trova un esemplare ogni 100 milioni.


Aragosta albina
Credits YourDailyMedia

Le aragoste albine sono le uniche che non cambiano colore dopo la bollitura, diventando color rosso brillante, come accade con gli altri esemplari.
Provare per credere, dopo essere riusciti a comprare un'aragosta albina, naturalmente.

A questo punto facciamo chiarezza su tutte le varie colorazioni e diciamo forte e chiaro che la pigmentazione dell' esoscheletro del crostaceo dipende da proteine prodotte dall'animale stesso.
In particolare, qualche anno fa uno studio del Dr. Harry Frank dell'Università del Connecticut è stato pubblicato nel Journal of Physical Chemistry. Nel testo si spiegava il motivo della colorazione blu, imputandola ad un difetto genetico proprio dell'individuo che la esprimeva.
Abbiamo già detto che normalmente l' esoscheletro dell'aragosta ha una colorazione che va dall'arancione scuro fino al blu scuro/verdastro, frutto della presenza di pigmento carotenoide (astaxantina), che dà il colore aranciato, e di crustacianina, un complesso proteico costituito da astaxantine riunite in “mazzetti” da altre proteine.
Secondo lo studio di Frank, la vicinanza delle proteine riunite in un “mazzetto” fa cambiare la configurazione degli elettroni negli atomi che le costituiscono e fa in modo che l'intero gruppo assorba una radiazione luminosa diversa da quella che verrebbe assorbita da una singola molecola di astaxantina.
In questo modo le molecole riunite in gruppi danno delle zone bluastre sull' esoscheletro dell'aragosta.
In un esemplare di aragosta blu la situazione appena descritta è spinta al massimo, dato che, per una mutazione genetica, il crostaceo produce una gran quantità di proteine che riuniscono l'astaxantina in crustacianina. Per questo motivo la colorazione blu si estende a tutto l'animale.
In questo caso la mutazione non è molto favorevole alla povera aragosta, la quale spicca moltissimo sul fondale marino rispetto alle sue compagne e viene più facilmente catturata.
A questo punto la domanda sorge spontanea: l'aragosta blu, quando si cucina, resta dello stesso colore?
Risposta negativa, il calore dell'acqua disfa la crustacianina, liberando le singole astaxantine, che donano la tipica colorazione rosso brillante all'aragosta bollita.
Enigma risolto, dunque. Ne sarebbe fiera anche Jessica Fletcher!

giovedì 14 agosto 2014

Mai dire mais - Campo di Granturco in centro a Milano

Metti una mattina in cui devi andare a fare una commissione.
E' Agosto e, anche se non fa caldissimo, sudi abbastanza, ma non demordi e confidi nelle ultime energie del caffè bevuto un'ora prima. Dove possibile, cerchi l'ombra, e dove non è possibile acceleri l'andatura nei tratti al sole. Giusto così, per aumentare la sudorazione.
Sei quasi arrivata a destinazione, ancora pochi metri e potrai farti accettare alla nuca da quell'amichevole aria condizionata all'ingresso di ogni negozio.
Ti giri un attimo a sinistra e vedi … un campo di mais!
No, no, un momento, qui siamo davanti al Castello Sforzesco, in pieno centro a Milano, non in una scena di Children of the Corn (Grano rosso sangue nella versione italiana).
Sarà un colpo di calore? Saranno ormai esaurite le forze derivanti dal caffè? Tutti dicono che la colazione è importante, sarà dunque la maledizione del nutrizionista o del dietologo che si abbatte su di me?
Niente di tutto ciò: il campo di mais c'è davvero e ci sono anche un sacco di turisti che si fotografano con lo sfondo del Castello e il mais; in effetti è una foto ricordo piuttosto strampalata.
Della serie: quest'estate sono stata a Milano e in un campo di mais. Nello stesso momento. 

Foto di Gea

Si tratta di un'installazione per Expo e si chiama Quantomais.

Ogni volta che sento dire “installazione” rabbrividisco. Probabilmente perché non sono del settore. La maggior parte non riesco a capirla, mi sembrano cose messe lì tanto per occupare spazio, anche perché non è che tu le guardi e basta. Bisogna leggere i cartelli esplicativi, di solito circa una decina, prima di comprendere il volo pindarico fatto dall'autore per arrivare a concepire una cosa che a te assomiglia ad uno scivolo ed invece rappresenta l'evoluzione vista con gli occhi di un capodoglio.
Torniamo a Quantomais. Si tratta di un campo di mais di 360 metri quadri messo a dimora a Giugno ad Abbiategrasso e trasportato in centro nottetempo a fine Luglio in vari bancali. Al momento viene curato lì, davanti al Castello, con un impianto di microirrigazione.
I bancali di mais sono disposti in modo da costituire corridoi e stanze interne, dove sono ospitate anche piante aromatiche e piante da orto.
In questo spazio si svolge un calendario di eventi densissimo, a base di musica, letture bendati e laboratori per i più piccoli.
Ora, di tutte le installazioni che ho visto in vita mia, almeno questa si configura come uno spazio per eventi, da vivere, un po' per tutte le età. Devo dire che trovarsi difronte ad un campo di mais all'improvviso nel centro di una città è piuttosto curioso. Se volete visitarlo, comunque, affrettatevi: a fine Agosto il campo verrà “smontato” ed i bancali con le piante ceduti a giardini, scuole ed università che ne faranno richiesta. Proprio così, esiste un bando di adozione per “riciclare l'installazione” e potete trovare tutti i dettagli nel sito internet dedicato.
Io comunque da Quantomais sono capitata per caso e sono rimasta colpita, anche se per le installazioni non ho proprio la passione!

Abbiamo già parlato di mais colorato in un post di Aprile.
Oggi ricorderemo due vignette che a me fanno sempre ridere.

"Ti avevo detto di mettere la protezione solare!"
"Fa caldo fuori?"
"Oh, stai zitto!"




Com'è fatto un chicco di mais e, soprattutto, cosa succede quando facciamo il pop corn?
Il chicco è costituito da tre strati.
Il più interno si chiama endosperma ed è quello che costituisce la maggior parte del chicco. Qui c'è soprattutto amido in granuli, inserito in una matrice proteica, ed una piccola parte di oli ed acqua.
Lo strato intermedio è definito germe e si può dividere in tre parti:
  • quella che, se piantiamo il chicco, darà origine alle foglie;
  • quella che costituirà le radici della nuova pianta;
  • la terza parte, fatta di oli vegetali, che darà energia alla pianta durante la crescita.
Lo strato più esterno, molto resistente, si chiama pericarpo e si compone essenzialmente di cellule morte e strati spugnosi che servono ad assorbire l'acqua necessaria per la germinazione.
Infine, possiamo inserire nella nostra descrizione anche la parte apicale del chicco, costituita di materiale fibroso che ha la funzione di connettere il chicco alla pannocchia.
Quando si fa il pop-corn succede una cosa piuttosto semplice a raccontarla così: il chicco esplode e si rivolta, l'interno esce e l'esterno si accartoccia su sé stesso rimanendo nella parte centrale del pop-corn.

Perchè accade? La causa sta nella struttura del chicco stesso, che si comporta come una piccola pentola a pressione, ma alla fine deve arrendersi alle leggi della fisica.
Una piccola parte dell'acqua contenuta nell'endosperma evapora e fa aumentare la pressione tra le pareti del chicco, le quali sono resistenti e dunque non cedono, creando l'effetto pentola a pressione accennato sopra. Il vapore rovente scioglie l'amido in granuli e lo fa mescolare con l'acqua allo stato liquido ancora presente, non evaporata a causa dell'aumento di pressione di cui parlavamo prima.
Nel frattempo, la temperatura interna del chicco continua ad aumentare, ed essendo il volume fisso, poiché è l'interno del chicco stesso, anche la pressione nell'endosperma aumenta, finchè il pericarpo non riesce più a sopportarla ed esplode.
L'acqua allo stato liquido evapora e fa raffreddare l'amido, che solidifica in schiuma bianca: ecco servito il vostro pop-corn!
Cosa c'è di più bello rispetto a pensare a questo piccolo miracolo che unisce la perfezione di un chicco di mais con il relax di una serata davanti ad un bel film?
Un video alla moviola dei chicchi che scoppiano!
Godetevelo e la prossima volta fate una bella figura con gli amici!

sabato 2 agosto 2014

Sole, Vento, Vino, Trallallà
I vigneti de La Geria, Lanzarote

Esiste una terra che in realtà è un canto lontano di mare e fuoco, che ricordano incessantemente come l'uomo, difronte alla Natura, sia davvero minuscolo.
Questa isola ha l'energia che possiedono tutte le isole vulcaniche e che non si riesce a descrivere bene se non se ne è mai visitata una. E' l'energia della terra stessa, il calore che emana da una manciata di sassi raccolti vicino alla bocca di un vulcano per il momento quieto, ma non spento per sempre.
La cenere, i lapilli, il vento, hanno modellato il paesaggio e delineato una vegetazione a tratti brulla e piuttosto africana.

Signore e signori, abbiamo un vincitore per quel che riguarda il quiz proposto nel penultimo post pubblicato, in cui si doveva provare ad indovinare il luogo dove era stata scattata questa foto.


Anzi, abbiamo una vincitrice!
Per il momento le risposte mi sono arrivate via messaggio, causa alcuni problemi con i commenti al post del blog, ma credetemi quando vi dico che questa signorina ha sbaragliato tutti a colpo sicuro ed al primo tentativo, vanificando il mio tentativo di depistaggio nella foto proposta!
Perciò, M.C., sai già di aver vinto, ora ritirerai anche il premio appena ti verrà in mente quale sia il tuo dubbio biologico da risolvere.

Dopo queste righe di suspense, svelo anche a voi che l'isola di cui stiamo parlando è Lanzarote, nell'arcipelago delle Canarie. In particolare, la foto è stata scattata nella zona de La Geria, conosciuta per le numerose coltivazioni di viti che producono una deliziosa Malvasia e per la presenza, conseguente, di molte bodegas (cantine).
A Giugno ho avuto la possibilità di visitarne una in particolare, la più antica delle Canarie e una delle più antiche di Spagna, la Bodega El Grifo, le cui prime notizie riguardo la fondazione risalgono al 1775.
Nel prezzo del biglietto d'ingresso sono comprese la visita alla cantina vera e propria, una passeggiata nel vigneto e una degustazione di vino. Con qualche euro in più si può assaggiare più di un vino e si ha diritto ad una piccola merenda a base di pane tostato e formaggio locale. Non dimentichiamo che la degustazione può essere fatta comodamente nel patio all'aperto sul retro della costruzione. Una sosta paradisiaca, se devo dare la mia opinione.

Ricorderete che nel precedente articolo sul vino abbiamo parlato della vite e dei fattori che portano alla sua evoluzione.
Quest'ultima, come ormai potete immaginare da soli, ha anche degli svantaggi. Infatti, se ci si “sposta” sempre più verso alcune tipologie di viti, la varietà nella pianta può diminuire. In molti paesi sono stati svolti degli studi per recuperare la tipicità e l'originalità delle varietà presenti e creare nuovi vini autoctoni, che altrimenti non vedrebbero la luce.

L' Universitat Rovira i Virgili di Tarragona, in Spagna, ne ha svolto uno in collaborazione con alcune cantine di Lanzarote, tra cui anche El Grifo.
Potete prendere visione di questo studio del 2013 qui; pur essendo in spagnolo, conoscendo le premesse e dando uno sguardo ai grafici in fondo, potrete avere un assaggio di quanta sia effettivamente la varietà nelle tipologie di vite presente sull'isola.
Scopo dei ricercatori è stato caratterizzare gli ecotipi della vite presenti a Lanzarote con la tecnica del DNA microsatellite, o STR (short tandem repeats).
Panico? Niente paura, andiamo a spiegare cosa sono queste STR.
Prima di tutto, diciamo che non tutto il nostro DNA codifica per le proteine, anzi la maggior parte  se ne sta lì bello tranquillo senza (apparentemente) fare nulla.
Le STR fanno parte di questo DNA non codificante e si trovano tra un gene e l'altro, in posizioni precise del cromosoma.
Le STR sono costituite da DNA ripetuto in piccoli blocchetti sempre uguali e sono molto utili quando si fanno dei confronti tra individui, siano essi piante, animali o uomini.

Vi state domandando perchè? Guardate la figura qua sotto.

Figura 1: STR corrispondenti

Figura 2: STR non corrispondenti
Grafiche di Pando
 
Consideriamo le ciliegine come se fossero delle sequenze ripetute (STR) non codificanti, mentre limoni e stelline identificano la parte codificante del cromosoma, quella che produce le proteine.
DNA 1 è un campione del genoma di una vite, DNA 2 un campione derivante dal genoma di una vite diversa.
In Figura 1 le due parti costituite da STR (in azzurrino) sono identiche, in Figura 2 sono diverse.

Lo studio dei microsatelliti serve ad ottenere la cosiddetta impronta genetica di un organismo. Individui diversi avranno una serie di ripetizioni diverse in determinate posizioni del cromosoma e allo stesso modo tracce dello stesso individuo saranno sovrapponibili perché in una precisa zona del cromosoma ci sarà lo stesso numero di ripetizioni.
Da questo lavoro, portato a termine usando la tecnica dei microsatelliti, è possibile intuire come nelle isole Canarie, specialmente in quella di Lanzarote, sia possibile riconoscere una gran varietà di tipologie di vite, che producono vini tipici di queste isole.
I ricercatori sono riusciti a:
  • raggruppare le viti in 27 gruppi in base al loro DNA;
  • vedere chiaramente fino a che punto alcune tipologie di piante siano imparentate con altre;
  • collegare alcuni ecotipi sconosciuti a tipologie di viti già note.
Senza allargarci a tutto l'arcipelago canario, che cosa rende davvero particolare il vino di Lanzarote?
E' bene ricordare che nel 1730 iniziarono sull'isola delle impressionanti eruzioni vulcaniche, che costrinsero gli abitanti a rifugiarsi sulla costa più orientale e che si protrassero per cinque anni. Di conseguenza la cenere vulcanica ricoprì completamente il terreno, lasciando scarse possibilità di coltivazione per quanto riguardava frutta e verdura.
Tuttavia, vuoi per spirito di intraprendenza, vuoi per la disperazione di vedere distrutta la propria terra, si hanno notizie di coltivazione della vite già da prima che cessassero le eruzioni.
Con il tempo proprio la cenere vulcanica si rivelò essere l'uovo di Colombo: proteggeva la pianta dalle problematiche derivanti dalle scarse piogge e dal disseccamento che avveniva a causa del forte vento che spazzava l'isola. Il lapillo (el picon) riusciva, infatti, ad attenuare l'eccessiva evaporazione e proprio con pietre di origine vulcanica venivano costruiti i muretti tuttora eretti a proteggere le viti nella zona de La Geria.
La vite è piantata in un foro fatto nel terreno, che la mantiene bassa e le garantisce la protezione del muretto. Quest'ultimo è incompleto: tra le pietre che lo costituiscono vengono lasciati dei fori che “rompono” il fronte ventoso, il quale, invece di abbattersi sulla pianta tutto in una volta, viene “spezzato” in più deboli correnti che disturbano in misura minore o addirittura per nulla la vite.
Il tipico muretto dell'isola è fatto a ferro di cavallo, sebbene nei vigneti più estesi si proceda alla costruzione di muretti quadrati per ottimizzare la quantità di viti che è possibile piantare.
Alle cantine El Grifo sia la raccolta che la cura del vigneto sono fatti manualmente, l'utilizzo del trattore è solo per le parti della vigna in cui esso riesce effettivamente a passare, le più centrali e ampie.
Vale la pena ricordare anche che i vigneti canari non sono stati mai intaccati dalla Fillossera, per cui non si è avuto bisogno di ricorrere agli innesti di cui parlavamo due settimane fa.
Fare di necessità virtù è qualcosa di più che un semplice motto per l'isola di Lanzarote, in cui il vulcano, il vento e l'ingegno dell'uomo si sono uniti per far sì che si potesse ottenere dalla terra un nettare degno di nota.
Esiste, dunque, un'isola a largo del Marocco, in cui mare, vento e fuoco la fanno da padroni. Tuttavia la sua è solo un'apparente aridità; essa ha nascosto tesori e ambrosia per chi ha saputo cercarli.
Ora fatevi un bel giro tra vigneti e cantine a Lanzarote. Buon fine settimana!




Ecotipo: varietà di piante diverse, la cui differenza risiede nell'interazione del materiale ereditario della pianta con l'ambiente in cui vive e con l'influenza dell'uomo.Torna su

sabato 26 luglio 2014

Panda per tutte le stagioni

Oggi si parla di panda.
Non quelle a quattro ruote, bensì quelli a quattro zampe, morbidosi e che nascono solo in modalità bicolore: i panda giganti o panda maggiori, il cui nome scientifico è Ailuropoda melanoleuca e sono diversi dal panda rosso.
Tutti sappiamo che sono in via d'estinzione, non a caso proprio questo animale è il simbolo del WWF, a monito dell'impegno di questa associazione per la salvaguardia delle specie in pericolo.
I panda giganti vivono in Cina, per la precisione tra le montagne del Sichuan, e sono della stessa famiglia degli orsi (Ursidae). 
Verrebbe da dire che sono anch'essi carnivori, come dimostrerebbe il loro stomaco semplice ed il loro apparato gastro – intestinale, ma chi di noi si immagina minacciato da uno sbavante panda nei propri sogni? E' molto più probabile pensare a questo animale accoccolato ai piedi di una pianta di bambù, mentre ne sgranocchia i germogli o le foglie.
I panda, infatti, sono erbivori per la quasi totalità; la loro dieta è basata sul consumo di due specie di bambù: il wood bamboo e l'arrow bamboo. Queste due tipologie di piante vivono ad altitudini diverse nell'habitat del panda ed uno studio molto recente ha provato a dimostrare quanto il panda sia abile nel bilanciare le due risorse al fine di ottenerne i nutrienti fondamentali per la sua dieta.
Il panda, lo ripetiamo, non ha un sistema digestivo adatto a scomporre piante così ricche in lignina e fibre come il bambù. Inoltre la sua dieta è povera di proteine.

Come fa allora a vivere da erbivoro, se non è “costruito” per esserlo?


Kung Fu Panda usa lo yoga
per digerire lignina e fibre del bambù

Lo studio a cui ci riferiremo è stato portato avanti per sei anni da istituti di ricerca cinesi, australiani e statunitensi e potete, come sempre, prenderne visione qui.
I ricercatori coinvolti hanno studiato il comportamento di un gruppo di panda in relazione alla loro alimentazione ed al cambiamento della stessa a seconda dei loro spostamenti durante le varie stagioni dell'anno. Si è presa in considerazione la quantità di tre elementi principali nella dieta del panda: il calcio, il fosforo e l'azoto, fondamentali nella riproduzione e nella crescita, come in tutti i mammiferi.
Dallo studio emerge che il comportamento del panda cambia a seconda delle stagioni.
Ora non immaginate il costume da bagno o la sciarpa di lana, si tratta di una variazione nella tipologia di cibo e nell'altitudine a cui lo trovano. Vediamo in breve le varie fasi.

PRIMAVERA
E' la stagione dell'accoppiamento.
I panda si cibano di germogli di wood bamboo, ad alto contenuto di azoto e fosforo, ma a basso contenuto di calcio.

GIUGNO
I panda salgono più in alto per mangiare germogli di arrow bamboo, sempre ricchi di nutrienti, ma con poco calcio.

TARDO LUGLIO
i panda si nutrono delle foglie di arrow bamboo, ad alto contenuto di calcio.

AGOSTO
Le femmine di panda tornano a più basse altitudini e, dopo circa tre mesi di gestazione, danno alla luce i loro cuccioli, i più piccoli della famiglia Ursidae. Le neo mamme si nutrono di foglie di wood bamboo, con un maggior contenuto di nutrienti e calcio, quest'ultimo utile per la produzione di latte.

INVERNO
Le foglie di wood bamboo avvizziscono, diminuendo la quantità di nutrienti fornita e mettendo in pericolo l'esistenza stessa dei panda, per i quali l'inverno è una stagione piuttosto problematica. Sembra, tuttavia, che essi riescano ad ottenere sostentamento anche da altre fonti per sopperire alla mancanza di nutrienti derivanti dal bambù.

Lo studio internazionale ha voluto studiare meglio la stupefacente sincronizzazione del ciclo vitale e riproduttivo dei panda giganti con le due specie di bambù che gli forniscono cibo per la totalità dell'anno.
Inoltre i ricercatori hanno ipotizzato che il calcio sia un fattore determinante per l'impianto in utero dell'embrione di panda, dato che è tipico di questa specie il cosiddetto impianto ritardato, distante anche mesi dalla fecondazione. Una delle motivazioni potrebbe essere che l'impianto segua le fluttuazioni del calcio nella dieta e che l'embrione attecchisca solo quando i livelli di questo elemento nella dieta della madre sono più alti.
Quest'ultimo fattore, sommato al fatto che il panda ha un periodo fertile molto ristretto durante tutto l'anno, mette in luce come sia fondamentale preservare l'habitat in cui vive il panda gigante se si vuole garantire la sua sopravvivenza.

Ci salutiamo con la vignetta di uno dei fumettisti che seguo con più piacere, che ha come protagonista, appunto, un simpatico panda.
Con un'estate così, poi, sarebbe sicuramente confuso anche riguardo a quali germogli mangiare!

Credits www.pandalikes.com

venerdì 18 luglio 2014

La vite e la Fillossera

La scorsa settimana abbiamo parlato di come sopravvivere ad una degustazione ed abbiamo rispolverato l'assioma alla base dell'enologia: “il vino si fa con l'uva”.
Oggi parleremo della pianta che dà origine alla materia prima, diciamolo tutti in coro: la vite!
Anche se sembra che sia una pianta tutto sommato tranquilla, forse non immaginate che in passato ha rischiato l'estinzione in Europa. Sto esagerando? Lasciatemi partire dall'inizio.

Ci sono testimonianze dell'esistenza della vite fin dall'Era Terziaria (da 65 a 1,8 milioni di anni fa circa), il periodo in cui comparvero sulla Terra moltissime specie animali e vegetali. Da quel momento la pianta si è andata diversificando in tantissime varietà grazie a quattro fattori principali che hanno introdotto variabilità nel genoma:

1) la moltiplicazione sessuale;
2) la selezione naturale per l'adattamento a diverse condizioni climatiche;
3) la mutazione;
4) l'azione che l'uomo ha compiuto sulle colture per ottimizzare le caratteristiche del prodotto.

Ovviamente la vite fu coltivata in molte parti del globo, praticamente ovunque potesse attecchire, poiché da essa si potevano ricavare deliziosi frutti e una bevanda che nei secoli ha avuto i suoi estimatori in tutte le classi sociali. Il vino era anche, come lo è ancora d'altronde, un motore delle economie locali, dato che non a tutti piacciono le stesse cose e quindi si può giocare molto sulla varietà di colori, profumi e gusti.
Come ha anticipato un mio “fan” nei commenti al post della scorsa settimana, esiste infatti un'altra categoria tra quelle citate, che lui ha giustamente chiamato “amanti del vino”. Oltre ad essere un avvocato (chiarimento nemmeno tanto necessario una volta che avrete letto la sua definizione, ché gli avvocati, si sa, parlano latino molto spesso), è anche uomo di lettere e di fine umorismo, quindi  riporterò la sua definizione per capire meglio chi entra a far parte di questo gruppo.
Gli amanti "sanno" qualcosa, ma non hanno la presunzione di saper tutto, anzi desiderano sempre approfondire la conoscenza di ciò che amano.
E tendono il bicchiere, ma non acriticamente: nel senso
ex ante perché usano quel che sanno per fare una cernita, e nel senso ex post perché ricordano quel che hanno sperimentato e lo aggiungono ai criteri per le cernite successive.
In questo sono guidati appunto dalla conoscenza e dall' organolettica.
Con queste due ali anche lo sperduto può diventare amante.

Anche l'enologia ebbe, tuttavia, dei periodi molto difficili da superare.

Nella seconda metà dell'Ottocento, infatti, una vera e propria tragedia si abbatte sui vigneti europei.
Un minuscolo insetto, chiamato Fillossera (Daktulosphaira vitifoliae), sbarca dal Nuovo Continente sulle coste europee, portato dai primi battelli che facevano traversate oceaniche.
Le sue dimensioni sono pari a quelle di un afide e presenta polimorfismo funzionale, cioè gli individui della stessa specie presentano caratteristiche diverse in base alla loro funzione. Ad esempio, ci sono delle Fillossere con le ali ed altre senza, a seconda che debbano restare sulla pianta infestata oppure andare a deporre le uova su altre.

Fillossera con le ali

In generale, gli insetti di questa famiglia possono avere diverse piante preferite per l'attacco. E' nota anche la Fillossera che infesta il pero, ma oggi ci atterremo unicamente alle viti.
La Fillossera attacca le foglie e le radici della vite, provocando delle escrescenze su entrambe e deponendo le uova nelle galle (protuberanze) fogliari. L'infestazione è spesso accompagnata dall'attacco da parte di acari rizofagi e funghi.
L'avrete immaginato da soli che la pianta, nel giro di due o tre anni, deperisce pian piano fino a marcire.
Tuttavia l'attacco alle foglie piuttosto che alle radici dipende dalla pianta infestata.
La vite europea, ad esempio, non viene attaccata a livello dell'apparato fogliare, è immune alla puntura della Fillossera a questo livello, tuttavia le sue radici non lo sono.
I danni alle radici riguardano tutte le viti, ma si differenziano da specie a specie. Ad esempio, la vite americana in generale viene attaccata a livello radicale, ma solo alla periferia dell'apparato, dunque le radici non vengono compromesse nella totalità e la pianta supera indenne l'infestazione.

L'attacco dell'afide Fillossera distrusse in poco tempo i vigneti europei, primi fra tutti quelli francesi, e produsse gravi perdite economiche.

Fillossera che se la gode
in un'illustrazione del settimanale inglese Punch, 1890

Si cercò un rimedio, ma per circa trent'anni l'infestazione continuò inarrestabile.
Finalmente da Montpellier arrivò la proposta di Gustave Foeux, che si rivelò determinante nel fermare la moria di viti ed il collasso dell'industria vinicola: l'innesto della vite europea con quella americana.
Il ragionamento, a posteriori, era piuttosto semplice.
Alcune specie americane non venivano attaccate dalla Fillossera, poiché avevano sviluppato una resistenza nei suoi confronti, probabilmente dovuta a tanti anni di contatto con il parassita e quindi a mutazioni intervenute nel genoma.
Si decise quindi di innestare le radici della pianta americana resistente con la vite europea.
Fu il primo esempio di lotta biologica su larga scala e fu un vero e proprio successo, che salvò e salva ancora oggi l'intera produzione vinicola europea.

Vitis vinifera è la tipologia di vite coltivata in Europa ed è anche la pianta che si è deciso di innestare con la vite americana. Inizialmente, per la scelta di quest'ultima, si è ristretto il campo ai vigneti d'oltreoceano immuni alla Fillossera, poi sono stati creati degli ibridi per ottimizzare ancora di più le loro caratteristiche e questi ultimi sono stati innestati con Vitis vinifera.
Il risultato è stata una pianta di vite non attaccabile dal punto di vista delle radici e nemmeno da quello delle foglie, se ricordate quello che abbiamo detto poco sopra.
Se ve lo state chiedendo, le prime indagini dimostrarono che la parte radicale dell'innesto influisce solo sull'adattamento della pianta al terreno e sulla resistenza alla Fillossera, mentre la parte superiore della vite mantiene intatte le caratteristiche del vitigno europeo innestato.
Ovviamente prima di dare il via ad un intero vigneto l'innesto va testato.
Farne uno errato, infatti, può comportare un gran dispendio di denaro, dato che esistono parti radicali più o meno vigorose, che devono perciò essere associate a precise condizioni del terreno. La vigoria delle parti radicali, infatti, può influire sui tempi di maturazione e quindi sull'accumulo di zuccheri e polifenoli nell'uva.
Secondo quel che già sapete, il prodotto finale sarà quindi abbastanza differente nei vari casi.

Ora, per divertirci un po', metterò una foto e potrete indovinare dove è stata scattata.
Per il vincitore non ci sarà soltanto la gloria, ma anche la possibilità di scegliere un argomento per uno dei miei prossimi articoli e di risolvere (spero) così un dubbio biologico che aveva da tempo.
Per farvi venire più curiosità posso aggiungere che il soggetto della foto, ovviamente un vigneto per restare in tema, sarà l'oggetto del post della prossima settimana.
A parità di risposta esatta mi toccherà rispondere ai dubbi di tutti coloro che vinceranno, anche se, in questo caso, vi chiedo fin d'ora di essere pazienti e di venirmi un po' incontro con le tempistiche.
Non è per lusingarvi, ma so che siete dei bravi detective!
Vi aspetto nei commenti al blog o, se preferite, su Facebook, Google+ o Twitter.

Dove sarà?